Amore e rovina, Paula McLain

Ernest diceva sempre che c'era una stagione per tutto. Una stagione per amare ed essere amati. Per lavorare e per riposare le ossa e lo spirito. Per sognare e dubitare, per temere e per volare. E allora che stagione era la nostra, se non quella della rovina, della sconfitta assoluta?



Chi è Martha Gellhorn?

Martha Gellhorn è ricordata o per essere stata la terza moglie di Hemingway o per la sua relazione con Bertrand de Jouvenel (l’amante di Colette, il giovane che ha ispirato Chèri). Ma la Gellhorn è stata molto, molto di più.

È autrice di romanzi, racconti, raccolte di racconti e saggi.

È stata inviata di guerra fino a ottantuno anni, riuscendo così a coprire tutti i maggiori conflitti del XX secolo, e coi suoi reportage - non solo di guerra, ma anche di viaggio - ha cambiato il modo di fare giornalismo.

"Senza il giornalismo d'inchiesta rimarremmo all'oscuro di tutto. Cosa impareremmo, come sapremmo? Non possiamo essere tutti ovunque."

Scriveva della gente comune, delle persone innocenti travolte dai conflitti e dalla miseria, non riuscendo a celare del tutto la propria indignazione.

"Una vecchia con le spalle coperte da uno scialle e per mano un esile bambino terrorizzato esce di corsa sulla piazza. (...) Quando la granata arriva la donna è al centro della piazza. Una piccola scheggia di acciaio ritorto, acuminata e bollente si stacca dalla granata; colpisce il bambino alla gola. La vecchia si blocca, stringe la mano del bambino morto, lo guarda con espressione attonita, senza dire nulla. (...)

Alla loro sinistra, sul lato della piazza un cartello enorme e brillante dice: ABBANDONARE MADRID."

Sua madre Edna è stata una suffragetta, Eleanor Roosevelt è stata la sua mecenate, nonchè una delle sue più grandi amiche; Hemingway, Dos Passos e ad altri famosi scrittori hanno sostenuto insieme a Martha la causa repubblicana in Spagna, contro il colpo di Stato del generale Franco.

Si è espressa molteplici volte contro i regimi totalitari, a favore della libertà e della verità.

È stata una donna forse non “perfetta”, ma indipendente e coraggiosa, che ha portato avanti il suo sogno di scrivere a discapito di tutto il resto: tra il matrimonio e l’ambizione ha scelto la seconda, e sebbene il suo lavoro venisse accostato a quello di Hemingway e ritenuto inferiore, ha continuato ad avanzare imperterrita, con pazienza e dedizione.

 

In Italia le sue opere sono inedite o fuori catalogo (cito I volti della guerra e In viaggio da sola e con qualcuno), perciò tutto quello che so deriva dai documentari (uno si trova su Youtube qui), dai film o dai libri scritti da altri sulla sua vita o su quella di Hemingway.

Tra questi libri si inserisce appunto Amore e rovina di Paula McLain, una biografia romanzata in prima persona in cui è la stessa Gellhorn a raccontare della sua vita tra il 1936 e il 1944, dal primo incontro con Hemingway alla fine del loro matrimonio.

Libro che in un primo momento non ho apprezzato.

Perché?

Perché lo scrivere in prima persona permette di rendere la narrazione molto scorrevole, ma rende anche il tutto poco oggettivo. Sembra che ci sia uno squilibrio: troppa finzione a discapito della realtà. E, in questo caso specifico, mi ha infastidito.

Tuttavia, la ragione principale del mio disprezzo è che il mio ideale di Martha Gellhorn non trova riscontro nella prima parte del romanzo.

Paula McLain mette le mani avanti dicendo che la sua non è la vera Gellhorn... e come potrebbe esserlo?

Inizialmente la ritrae come una donna insicura, patetica, che dipende dall’aiuto degli uomini amati e dalle loro opinioni.

Io questa Gellhorn la rinnego.

E rinnego molti dei pensieri che le vengono attribuiti (Ernest è il migliore, non c’è nessuno come lui, non è mai esistito uomo più affascinante, o le frasi sul suo aspetto fisico - Hemingway all'epoca non era esattamente un uomo curato, giovane e aitante - o sui cuori che battono all’impazzata)

Serve a rendere il romanzo più appassionante? Più rosa? Perché non era necessario.

 

Dalla guerra civile in Spagna il romanzo inizia a crescere: Martha capisce che ciò che conta è scrivere della gente, però si parla ancora troppo poco del suo lavoro, dei pezzi per il Collier’s. È più incentrato sull’inizio della relazione con Hemingway ma, paradossalmente, sono migliori le parti in cui non si parla della coppia, bensì della situazione a Madrid. È persino possibile fare un confronto con quanto descritto dalla Gellhorn nei suoi articoli.

La bomba giunse con un sibilo e si frantumò in migliaia di schegge, come tanti frammenti di sole. Rapido e invisibile, più rapido di un pensiero, uno dei frammenti si conficcò nella gola del bambino. Lui si accasciò, la mano ancora stretta allo scialle della madre, mentre le bombe continuavano a cadere al ritmo di una ogni pochi secondi. La donna si chinò sul figlio, gridandogli più volte di alzarsi. 

Non avevo mai visto nessuno morire in quel modo, davanti ai miei occhi, figuriamoci un bambino.


Poi la fuga, la quotidianità a Cuba, il lavoro di entrambi, la possessività di lui nei confronti di lei ("Una puttana in tempo di guerra è pur sempre una puttana, no?"), l'invidia di lei nei confronti di lui (Era ovvio che avrebbe scritto anche lui della Spagna, mi rimproverai in silenzio, al buio. E l'avrebbe fatto meglio di quanto avrei mai potuto sperare di fare io). Le cose iniziano ad andare in pezzi e il romanzo diventa sempre più coinvolgente.

 

Dalla guerra in Europa altro salto in avanti, ulteriore evoluzione: Martha, priva di accrediti e imbarcatasi di nascosto su una nave ospedaliera, è l'unica reporter che riesce a raggiungere la Normandia nel D-Day, il 6 giugno del '44.

Il prezzo da pagare è stato altissimo: Gellhorn. Era tutto ciò che mi rimaneva, e me lo sarei tenuto stretto.

 

 

 

In conclusione Amore e rovina è una buona biografia, imperfetta ma scorrevole, consigliata soprattutto per approfondire la figura della Gellhorn.

Sempre per approfondire consiglio anche il film “Hemingway e Gellhorn”, con Clive Owen e Nicole Kidman. È un film gradevole che ben rappresenta il rapporto tra i due e le tappe principali della loro vita insieme.

0 Commenti

Leggende americane, Fernanda Pivano

“È con l’anima sulle labbra che scrissi in quegli anni appassionati la maggior parte delle pagine incluse in questa raccolta che a suo tempo interessarono giovani incatenati da una guerra non voluta, da un linguaggio grottesco, da coercizioni medioevali e ritrovarono non tanto nelle mie parole quanto nei libri che proponevo le loro ansie libertarie, i loro sogni di anarchia, di democrazia, di sincerità”. 



 Leggende americane raccoglie le prefazioni scritte da Fernanda Pivano alle opere - molte delle quali da lei tradotte - di Masters, Hemingway, Fitzgerald, Dorothy Parker e Faulkner.

Non sono mai stata una grande estimatrice della letteratura americana degli anni ruggenti. Preferisco altri lidi e altre epoche, perciò mi sentivo più o meno a posto con la coscienza dopo aver letto un paio di racconti di Fitzgerald (tra cui Lo strano caso di Benjamin Button) e aver visto alcuni film (le trasposizioni del Grande Gatsby sono sempre belle).

La smisurata e contagiosa passione di Fernanda Pivano mi ha però fatto cambiare completamente prospettiva.

 

Lo studio che ha operato sulla figura e sulle opere di Ernest Hemingway mi ha portato a dare a “Addio alle armi” un significato che altrimenti non avrei saputo trovare.

L’ossessione di Hemingway per la guerra (“inutile e insensata, un massacro incosciente per interessi incoscienti”), l’orrore per la violenza, la morte come una costante, il mito del coraggio, la sincerità (doveva mettere dentro il brutto e il cattivo oltre che il bello, altrimenti il lettore non avrebbe provato la sensazione della “vera vita”), la libertà come unico credo.

E per descrivere tutto ciò l’impiego di una scrittura volutamente ridotta all’osso, contraddistinta da “un’economia severa e austera di parole”.

La Pivano racconta dei suoi incontri con Hemingway, della disapprovazione della famiglia di lui, delle mogli e di quanto si sentisse un fallito per aver divorziato tre volte, degli amici scrittori e dei rapporti che nel tempo si sono guastati, della malattia che lo ha portato a togliersi la vita come un antico samurai.

Ho letto Addio alle armi, proseguirò con Per chi suona la campana e - con molta calma - leggerò i libri che più mi interessano fino ad arrivare a Il vecchio e il mare.

Dice di Francis Scott Fitzgerald di non averlo mai conosciuto: è morto troppo presto.

È stato Fitzgerald con Di qua dal Paradiso a dare al decennio dal ‘19 al ‘29 il nome di Età del Jazz. Un periodo nel quale ogni gesto poteva assumere un carattere di sfida (che le donne si tagliassero i capelli, accorciassero le gonne e infilassero calze color carne erano considerati simboli di ribellione; niente più trecce, niente più busti, finalmente autonomia e il diritto di voto).

Scott e Zelda, diventati l’emblema di New York, facevano quel che pareva a loro, quando e dove volevano. E Fitzgerald, nel tentativo di mantenere un certo tenore di vita, scriveva centinaia di storie, inserendo in ognuna una goccia di sé (“non sangue, non una lacrima, non il mio seme, ma me stesso più intimamente”). In ognuna inseriva anche la sua Zelda, e tutte le volte ne faceva un ritratto talmente ingrato che il risentimento della moglie è cresciuto negli anni fino ad esplodere. 

È Zelda - la pazza - a essere additata come la principale causa della rovina di Scott. Ma è la stessa Zelda a contribuire più volte alla creatività del marito: oltre a ispirare molti dei suoi personaggi (Daisy cita le parole di Zelda: “Sono contenta che sia una bambina. E spero sia stupida. È il meglio che una ragazza possa essere, in questo mondo, una bella stupida”), è lei a suggerire a Scott modifiche e tagli. E i diari, le lettere e alcune parti dell’unico romanzo scritto da Zelda (Lasciami l’ultimo valzer) si trovano rimaneggiati all’interno delle opere del marito.

La Pivano spende molte parole per Zelda e la sua colpa di essere nata donna, per poi tornare a Fitzgerald. Si chiede perché Zelda col tempo sia stata rivalutata (è considerata un’icona femminista), mentre nessuna biografia prenda in esame la denuncia sociale operata da Scott. Le sue sono storie di declino, di personaggi che “da situazioni di integrità morale” vengono inesorabilmente condotti (dalla corruzione esercitata dal denaro, dal veleno della ricchezza, dalla tentazione della facilità economica) “alla disintegrazione e al disastro”. La personificazione della New York frivola era tutt’altro che leggera.

La parte che ho preferito è quella dedicata a Dorothy Parker, scrittrice/giornalista/poetessa a me prima ignota.

L’immagine della Parker “è legata al lusso e alla frivolezza, a sbronze più o meno festose e ad amori più o meno discutibili”, “a scene di fasto e di sperpero, di egoismo sociale e di leggerezze private”. Si parlava dei suoi boa di struzzo e del suo whisky, dei suoi mariti e dei suoi amanti, dei suoi aborti e dei suoi tentativi di suicidio, dei suoi debiti e delle malignità con cui stroncava amici e conoscenti.

La malignità - che serviva a smascherare i rappresentanti della presunzione, dell’ignoranza, dell’ipocrisia - era però solo una delle forme in cui esprimeva il proprio umorismo. E lei era la prima vittima dei suoi stessi commenti al vetriolo.

Fernanda Pivano ne delinea un primo ritratto per poi scavare più a fondo. Racconta aneddoti, parla dei lavori che hanno reso la Parker popolare, riporta testi di sue poesie e ne analizza le contraddizioni. Riscontra la fragilità di una donna che era allegra e spensierata solo all’apparenza, quando è fin troppo facile rintracciare in lei una creatura insicura, disperata e solitaria, nell’ambivalenza che fin dal principio ha costituito il suo personaggio.

Della parte finale, dedicata a William Faulkner, consiglio la lettura solo se conoscete già la trama di alcune delle sue opere più famose.

Per illustrarne il simbolismo, per far capire come la critica abbia individuato nei romanzi di Faulkner una serie di allegorie, la Pivano ne analizza la trama per filo e per segno, svelando persino il finale.

Spiega il senso del titolo, quanto fosse ironico - se non blasfemo - usare Santuario in riferimento a un bordello o a una fabbrica d’alcol. E così anche in Requiem per una monaca, dove la monaca è una ex prostituita tossicomane. O forse Santuario di riferisce ad altro, alla donna. O forse all’avvocato. 

A proposito, Faulkner (il quale disse - dopo aver vinto il Nobel - di aver scritto Santuario con la sola idea di “fare quattrini") dichiarò: “Uno scrittore è troppo occupato a creare personaggi in carne e ossa che stiano in piedi per aver tempo di rendersi conto di tutto il simbolismo che può aver messo in quello che ha scritto o che la gente vi può trovare”. 

La parte su Faulkner è la più complessa: la vita, i temi affrontati, il sensazionalismo, la tendenza a denigrare il suo stesso lavoro, lo stile di scrittura (opposto a quello di Hemingway) lo rendono un autore per me più difficile da afferrare.

Vorrei comunque leggere Mentre morivo e proseguire con Santuario.

 

Ho lasciato Edgar Lee Masters per ultimo. 

La sua Antologia di Spoon River ha causato uno scandalo inimmaginabile nell'America del 1915: Masters immaginò che i defunti di una cittadina recitassero da sé il proprio epitaffio, rivelando la realtà quotidiana della “nuova” civiltà americana. “Un’umanità tragica, sofferta e tuttavia tesa alla speranza e alla fiducia”.

Fernanda Pivano si è innamorata dell’Antologia grazie all’immagine evocata dal defunto Francis Turner, il quale mentre baciava l’adorata Mary “con l’anima sulle labbra, l’anima d’improvviso gli volò via”.

È con l’anima sulle labbra che la Pivano ha scritto le introduzioni che compongono questa raccolta, ed è grazie all'anima sulle labbra che riesce a trasmettere il suo amore per questi autori che, ormai, sono diventati dei classici.

0 Commenti

Dio odia il Giappone, romanzo d'amore e fine del mondo

Non esiste nulla di simile a Dio odia il Giappone, fidatevi. Se cercate una lettura non convenzionale, se il Giappone è un paese che vi affascina e vorreste conoscerne ogni aspetto, anche quelli di cui generalmente non si parla, allora è il libro perfetto.

 

Cominciato senza sapere niente di trama e quant'altro, portato a termine in due notti, sono stata conquistata da Douglas Coupland. Così ho cercato che altro avesse scritto, e, sorpresa!, è l'autore di Generazione X!

E che è?

È un libro attualmente sparito dalla circolazione - come buona parte dei libri di Coupland - che mi piacerebbe leggere e che dovrebbe raccontare le vicende di tre giovani americani nati tra gli anni '60 e '70, facenti quindi parte di una generazione che poco si identificava con la precedente (quella del boom economico, del baby boom, dopo il boom di una guerra mondiale).

Anche Dio odia il Giappone è un “romanzo generazionale”, ma coglie i problemi di chi è nato dall'altra parte del pianeta, in un periodo non esattamente felice per il Paese del Sol levante, che attraversava una feroce crisi economica e nel contempo continuava a produrre, produrre e produrre.

Il Giappone ha attraversato tutto lo spettro del capitalismo. Abbiamo spinto il concetto di shopping più in là di qualsiasi altra cultura conosciuta sulla Terra. Non si può prevedere quello che succederà dopo. Non ci sono miti o esperienze storiche a guidarci. Siamo in una situazione davvero nuova. La storia, per quanto riguarda il Giappone, è morta.


Hiro Tanaka, protagonista e narratore, è nato nel 1975 a Tokyo. La madre è casalinga e il padre lavora in un'azienda; non ha fratelli, ma una sorella maggiore, Moriko, moglie di un dentista. Hiro è la pecora nera: non è stupido, ma non riesce a conformarsi.

È ostile, come la maggior parte dei giapponesi, nei confronti dei gaijin, gli stranieri: Ma che problemi hanno i gaijin? Cosa vogliono? Quali sono i motivi che li spingono a vivere in un Paese dove non hanno nemmeno una molecola di possibilità di essere accettati o di potersi inserire?

Allo stesso tempo non sente di essere giapponese, eppure qualsiasi cosa faccia o dica ogni molecola del suo corpo sarà al cento per cento colletto-bianco-nuclearizzato-fedele-all'Imperatore-scolaretta-troia-moglie-trascurata-che-muore-di-solitudine-sull'orlo-della-psicosi.

Non c'è via di scampo, e Hiro sarà sempre combattuto tra il desiderio di integrarsi nella società, trovare un lavoro stabile ed essere considerato un bravo cittadino, e quello di essere originale e veder cancellata la sensazione di avere un codice a barre tatuato in fronte.

Vede il mondo come fosse un posto in rovina: da un lato vorrebbe salvarlo, dall'altro lo farebbe saltare per aria una volta per tutte. E non è il solo: la sua è una intera non-generazione di giovani che non sanno cosa fare, che non vogliono vendere l'anima al sistema, svolgono lavori saltuari e sperperano lo stipendio per svagarsi.

Non vuoi niente. Non credi in niente. Il futuro è il tempo che ti rimane prima di finire un videogioco. Non credi nella vita dopo la morte e hai poca fiducia nella vita in generale. L'unica cosa che sai per certo è che non vuoi le stesse cose che volevano i tuoi genitori. Per migliaia di anni, ogni singola generazione è riuscita a trasmettere le proprie tradizioni e memorie a quella successiva. Questo legame si è spezzato e probabilmente non si aggiusterà più. E ci sono decine di milioni di persone come te là fuori. Tu sei quello che sarà. Tu sei la nuova norma.


E sembra un tema pesante (e attuale!), e lo è, però si ridacchia spesso e volentieri. Hiro e le sue caviglie fragili regalano perle di comicità nei momenti più inaspettati. Si passa dalle sette estremiste e attentati col gas a Hiro vestito da coniglio che viene gambizzato da dei bambini in slittino. Perle!

Altre ragioni per leggere il libro, oltre all'originalità, al tema generazionale e all'umorismo, sono il prezzo bassissimo (cliccare qui per evitare la fatica di andare a cercarselo da soli), l'edizione curatissima, ricca di illustrazioni strambe e molto pop (Isbn Edizioni, pace all'anima tua), e il fatto che il libro sia così breve e poco impegnativo è piacevole.

E vorrei poter citare decine di frasi. Ce ne sono di stupende, come quella sul senso pratico delle donne (Se le donne avessero condotto la Seconda guerra mondiale, sarebbe finita dopo una settimana) o sul perché del titolo (Una volta credevo che Dio odiasse me in particolare, Hiro. Ma Dio non odia me: odia il Giappone), però sarebbe decisamente meglio leggersele insieme al resto. Partite senza nessuna aspettativa e lasciatevi sorprendere!

 

0 Commenti

Kitchen di Banana Yoshimoto

Kitchen mi ha rubato il cuore: racconta una storia malinconica e delicata senza mai scadere nel banale e, siccome è cosa rara, lo devono amare tutti.

Sono perfettamente consapevole del fatto che i Lettori occidentali  potrebbero trovarlo troppo semplice e poco credibile e, proprio per risolvere questo gigantesco problema, propongo a tali Lettori un espediente: si devono immaginare un altro universo, una dimensione parallela o un piccolo pianeta simile al nostro.

Ecco, sì.

Una sorta di PianetaKitchen, regolato da principi simili a quelli che regolano il PianetaDiNoiAltri, ma non del tutto coincidenti.

 Kitchen è un romanzo breve - circa un centinaio di pagine – comprensivo di due parti: Kitchen e Plenilunio (o Kitchen 2).

Tre sono i personaggi da tenere a mente: Mikage, Yuichi e Eriko.

Mikage, dopo aver perso anche la nonna ed essere rimasta sola al mondo, viene invitata da Yuichi Tanabe a stare a casa sua per un po' di tempo. Yuichi “lavorava part-time dal fioraio da cui la nonna si serviva. Molte volte le avevo sentito dire 'Sai c'è un ragazzo molto caro… si chiama Tanabe… anche oggi è stato lui a servirmi'...”. Qui Mikage incontra Eriko: "Quella era una mamma? Ero allibita e non riuscivo a staccarle gli occhi da lei. I capelli lucidi che le arrivavano alle spalle, la luce profonda degli occhi a mandorla, la forma perfetta delle labbra, il profilo deciso e la luminosità vibrante della forza vitale che si irradiava da tutto il suo essere… non sembrava umana..." per poi venire a scoprire che Eriko non era esattamente una madre: "Un uomo lei? Con quelle dita affusolate, quei gesti, quel portamento?"

In questa prima parte si racconta di come Mikage sia riuscita a crearsi una nuova famiglia dal nulla, mentre in Plenilunio le parti si invertono: non è più Mikage a dover affrontare la solitudine e il dolore e, stavolta, sarà lei a prestare aiuto a chi ne avrà bisogno.

Dunque, ragazze che si fanno ospitare a casa di sconosciuti, madri che in realtà sono padri, amori del tutto platonici... siamo su un altro pianeta, non dimenticatelo! E ciò che è perfettamente sensato su un pianeta potrebbe non esserlo su un altro: sulla Terra è la gravità più forte che ci permette di rimanere ancorati al suolo, mentre su Marte potremmo fare balzi di qualche metro, e così le leggi che valgono sul PianetaKitchen possono non valere sul PianetaDiNoiAltri.

Per entrare più nel dettaglio, i principi su cui il romanzo si basa e che lo rendono a suo modo logico e credibile sono gli stessi del fumetto giapponese per ragazze.

Giorgio Amitrano, nella postfazione di Kitchen fa riferimento allo shojo manga, il fumetto per ragazze più giovani, citando il manga di Riyoko Ikeda, La rosa di Versailles (conosciuto in Italia come Lady Oscar) per spiegare come in Kitchen la situazione di Eriko sia perfettamente plausibile. Infatti nello shojo “l'esagerazione, lo squilibrio a favore del sentimento, non mettono in crisi la verosimiglianza, anzi diventano un elemento di coesione del tessuto narrativo”.

Che significa?

Significa che nello shojo (o shoujo) è perfettamente normale che una ragazza venga ospitata per mesi a casa di una persona vista mezza volta, che un padre diventi una madre bellissima, che per anni una relazione uomo-donna si limiti a semplici sguardi, cose non dette e sogni condivisi. Ovviamente è impossibile sul PianetaDiNoiAltri, però leggere qualcosa di simile non può certo far male: io lo trovo romantico e nei fumetti, nei romanzi, nei drama e nei film orientali accadono spesso fatti molto simili. Basta leggerne/guardarne un paio e ci si fa presto l'abitudine.

 

Personalmente più che agli shojo - in genere abbastanza spensierati e con protagoniste ragazze in età scolare - a me Kitchen ha fatto pensare a fumetti più maturi come i manga shonen di Seo Kouji (A town where you live, Half & Half) nei quali si fa riferimento agli stessi temi trattati dalla Yoshimoto (la solitudine, la perdita di una persona cara, la famiglia). Oppure agli josei, manga rivolti a un pubblico femminile più adulto: gli esempi più noti sono le opere di Ai Yazawa (Nana, I cortili del cuore, Paradise kiss).

Qualcosa di originale nel romanzo sta nel modo in cui viene vista e utilizzata la cucina. L'esordio - "Non c'è posto al mondo che non ami di più della cucina" - rende l'idea di quanto Mikage adori questa particolare stanza, tanto da decidere di accettare l'ospitalità di Yuichi solo dopo aver ispezionato la sua, perché una cucina dice molto della casa e dei gusti dei suoi abitanti. "Giravo e osservavo tutto, approvando. Era una buona cucina. Me ne ero innamorata a prima vista". È la stanza più vissuta, quella che bisogna pulire più spesso e in cui la famiglia si ritrova per stare insieme: è un ulteriore espediente per far capire al lettore quali siano i desideri di Mikage. E così anche il cibo diventa un collante per la nuova unità familiare: Yuichi ed Eriko sono felici della bravura di Mikage, Mikage conosce i loro gusti e cucina i loro piatti preferiti, Mikage fa capire i suoi sentimenti a Yuichi portandogli un impeccabile katsudon (piatto a base di riso, carne e uova). Il cibo consola e unisce.

0 Commenti

Adesso di Chiara Gamberale

Il Lettore è attualmente in piena crisi da “scrivi, cancella e riscrivi” e non riesce a formulare un pensiero preciso su questo libro.

 

Perché ancora non ha capito se gli sia piaciuto o meno.

 

Dato il suo essere fortemente confuso, per provare a mettere ordine nella sua testa, scriverà solo alcuni fatti certi per poi tirare le somme alla fine.

“Ti capisco e non mi spaventi, Lidia.”

“Che?”

“Ti capisco e non mi spaventi.”

“Pietro, ma sei scemo? Perché mi guardi così?”

“Cambia treno.”

“Cambiare treno?”

“Parti nel pomeriggio.”

“Perché?”

“Andiamo di là e facciamo l'amore.”

“Ma chi?”

“Tu e io.”

“E quando?”

“Adesso.”

 

 


Innanzitutto Chiara Gamberale è una scrittrice che ritrovo due volte nella mia lista di libri da leggere: ci sono Una vita sottile - il suo romanzo d'esordio - e anche Le luci nelle case degli altri, che ha un titolo meraviglioso e probabilmente è nella lista per quello. Probabilmente. O magari perché mi piaceva la trama. Non ricordo.

Altro fatto certo è che Adesso, il suo ultimo romanzo, non era nella mia lista e che, se non mi fosse stato in pratica regalato, l'avrei evitato perché è un romanzo d'amore e il genere mi interessa poco.

Però è un romanzo d'amore atipico. Ed è atipico soprattutto il modo in cui è strutturato.

Per capirci: prima si racconta un episodio della vita di Lidia, poi della vita di Pietro, poi Lidia, poi Pietro, poi loro due insieme.

Questo alternarsi mi ha messo quasi in crisi fin dal principio, però sono riuscito comunque a raccapezzarmici, almeno finché non sono iniziate le "digressioni" della scrittrice. Non credo sia il termine adatto, ma non saprei come altro chiamarle.

Comunque l'avevamo incontrata.

L'Occasione.

Aveva due braccia, due gambe, un'infanzia, un lavoro che sognava di fare e che poi avrebbe fatto, un lavoro che sognava di fare e già faceva, aveva dei denti, una risata strana, un problema di stitichezza, un gatto.

Avevamo cominciato a passeggiare insieme; il tempo, quel vecchio saggio, prima s'era incantato, poi, grazie a chissà quale magica pasticca blu, si era messo a correre velocissimo e all'improvviso ogni notte l'Occasione si addormentava con noi.

Ma poi uno dei due se l'è scordato. Di amare l'altro o di ricordarsi che l'altro lo amava: fa lo stesso.

Quello che segue è comunque uno strazio.

L'Occasione smette di essere un'occasione, la persona smette di essere una persona e noi smettiamo di essere noi.

...


Per Lidia l'Occasione (o amoreterno) era Lorenzo. Per Pietro, invece, il suo primo amore Celeste, piuttosto che l'ex moglie Betti.

Per ragioni differenti, Lidia e Pietro hanno perduto le loro rispettive Occasioni, ma ciò non significa che per loro sia tutto finito, perché il tempo dà la possibilità di incontrarne un'altra capace di far battere nuovamente “quel rosso buffone”.


Io?

Tu.

Non sono pronto.

Nessuno lo è. In verità?

In verità ho paura.

Tanto ormai è successo.

E quando?

Adesso. 

...


E fin qui tutto chiaro, quasi poetico.


Il problema è che la struttura del romanzo si complica ulteriormente quando le persone entrate in contatto con Lidia e Pietro (l'erborista, l'ex compagno di classe, il libraio, la psicologa, la collega, il surfista, l'ex marito...) diventano protagonisti di alcuni capitoli, allo scopo di raccontare l'innamoramento - “la pallina che si muove, sotto le costole, all'altezza della pancia” - da più punti di vista. 

Dunque, da una parte, devo considerare che non è stata una lettura passiva in cui mi lasciavo trascinare dagli eventi, ma qualcosa di più complesso che mi ha costretto ad attivare i neuroni per capire bene di chi e cosa si stesse parlando; però, dall'altra parte, il romanzo non permette un coinvolgimento profondo perché la lettura viene spezzata da questi continui cambi di narratori, oltre che da pagine con su scritte poche parole, e da quelle in cui a parlare è la scrittrice stessa.

Della trama non anticipo nulla perché è un romanzo d'amore e poco c'è da aggiungere. Basti sapere che Lidia è una conduttrice televisiva, una donna piena di energia che vive per le emozioni forti e che rifugge dai porti sicuri. Al contrario Pietro, direttore di scuola e padre attento, a causa dei traumi subiti in passato, tende a reprimere le proprie emozioni e a non correre mai rischi. Un personaggio secondario interessante è l'ex marito di lei, Lorenzo: so che se ne parla anche in un altro libro, motivo in più per recuperarlo.

Altro punto è che la scrittrice sembra avere un certo gusto per ciò che è improbabile - se non addirittura surreale -, ed è un qualcosa che mi piace sempre tanto.

 

E niente. Nemmeno così riesco a trarre delle conclusioni.

Che sia un romanzo originale è certo. C'è disordine solo in apparenza perché, in realtà, i pezzi del puzzle si incastrano bene tra loro, anche se il disegno complessivo lo si coglie dopo un bel po'.

A tratti mi sono un po’ commosso, soprattutto verso la fine, ma più spesso ho sentito una certa distanza tra me e il libro che tenevo in mano. È tutto troppo concettuale e ben pensato. 

In ogni caso con Chiara Gamberale non è finita: devo capire se questo sia effettivamente il suo stile, e abbiamo almeno altri due romanzi in sospeso. 

 

0 Commenti

L'amica geniale di Elena Ferrante

Mi sono ripromesso che avrei smesso di divorare i libri. Non scherzo. Ne potrei mangiare per colazione, pranzo e cena. Persino i miei sogni rimangono legati al libro che sto leggendo, sempre che sia un bel libro, e poi resto stordito per tutta la giornata.

Per questa ragione ho iniziato un percorso di disintossicazione - nel senso buono del termine - promettendomi per la decima volta che mi sarei limitato a leggere un paio di pagine al giorno, senza esagerare, anche per gustarmele meglio ed apprezzarne lo stile. 

Ce l'ho fatta con i romanzi della Allende, con la saga del Il trono di spade, con Jane Eyre, e sono mesi che riesco a contenermi. Ero veramente fiero di me, anche perché sono meno distratto e rimbecillito. Poi, incuriosito da questo cavolo di romanzo - L'amica geniale di Elena Ferrante - sono ricascato nel tunnel. Letto con calma per giorni e giorni, un capitolo prima di dormire, per poi mandare tutto all'aria: divorate duecento pagine in una notte!

È dannatamente bello, non gli si può dire altro. È stato come piombare nella periferia di Napoli più di mezzo secolo fa, quando si parlava solo il dialetto stretto, e i bambini che proseguivano gli studi erano tre o quattro in tutto il quartiere. Tutti gli altri a lavorare: chi come fruttivendolo, chi come ciabattino, chi come muratore o salumiere; e le ragazzine, per lo più, ad aiutare in casa.

Ma è la storia delle due protagoniste che mi ha fatto rompere la promessa: Lenù e Lila sono due bambine che vogliono migliorare la propria condizione, elevarsi da quella realtà talmente degradante da essere in grado di incattivire gli animi più gentili. Sono le migliori a scuola, ma è Lenù a sforzarsi per cercare di essere al pari di Lila, un piccolo genio. E per tutto il romanzo è un continuo rincorrersi, una gara a chi raggiunge per prima il traguardo. Si percepisce la gelosia, la competizione tra le due bambine, ma soprattutto l'amicizia, quella vera. Quella che resiste al tempo, alla distanza e al desiderio di prevalere. Quella che porta a una profonda ammirazione nei confronti dell'altra, nonostante la personalità delle due sia molto forte e differente, e il carattere di Lila a dir poco indomabile. Sono vive, esistono realmente, sono due persone così come lo sono io. Non saprei come altro spiegarlo: si possono toccare con mano.

Le due bambine lentamente crescono e con loro si assiste al graduale cambiamento della città: si buttano giù gli alberi per far spazio al cemento, vengono aperte delle piccole attività, le persone hanno voglia di spendere, di adeguarsi alla musica, ai nuovi balli, alla moda del tempo.

Il romanzo copre giusto l'infanzia e l'adolescenza delle due protagoniste, per poi interrompersi sul più bello. La ragione è che esistono altri tre volumi (Storia del nuovo cognome, Storia di chi fugge e di chi resta, Storia della bambina perduta) in cui si racconta il resto della storia, che ancora non conosco e che intendo conoscere al più presto.

E il modo di scrivere di Elena Ferrante l'ho invidiato dall'inizio alla fine. È chiaro e semplice. A volte utilizza qualche termine napoletano (“strunz”), altre volte delle espressioni che sembrano uscite dai romanzi di un secolo fa. In ogni caso ci si ritrova nel mezzo dell'azione, come se la scena descritta si svolgesse sotto gli occhi del lettore. È anche vero che il romanzo l'ho trovato un po' “asettico”, nel senso che non suscita particolari emozioni: non fa né ridere né piangere, non mi dispiace per le protagoniste neanche quando capitano loro le peggiori cose, però è una meraviglia di libro. Una meraviglia. Si legge come bere un bicchiere d'acqua. Tanto che ho già voglia di rileggerlo… pazienza le promesse!

 

2 Commenti