“È con l’anima sulle labbra che scrissi in quegli anni appassionati la maggior parte delle pagine incluse in questa raccolta che a suo tempo interessarono giovani incatenati da una guerra non voluta, da un linguaggio grottesco, da coercizioni medioevali e ritrovarono non tanto nelle mie parole quanto nei libri che proponevo le loro ansie libertarie, i loro sogni di anarchia, di democrazia, di sincerità”.
Leggende americane raccoglie le prefazioni scritte da Fernanda Pivano alle opere - molte delle quali da lei tradotte - di Masters, Hemingway, Fitzgerald, Dorothy Parker e Faulkner.
Non sono mai stata una grande estimatrice della letteratura americana degli anni ruggenti. Preferisco altri lidi e altre epoche, perciò mi sentivo più o meno a posto con la coscienza dopo aver letto un paio di racconti di Fitzgerald (tra cui Lo strano caso di Benjamin Button) e aver visto alcuni film (le trasposizioni del Grande Gatsby sono sempre belle).
La smisurata e contagiosa passione di Fernanda Pivano mi ha però fatto cambiare completamente prospettiva.
Lo studio che ha operato sulla figura e sulle opere di Ernest Hemingway mi ha portato a dare a “Addio alle armi” un significato che altrimenti non avrei saputo trovare.
L’ossessione di Hemingway per la guerra (“inutile e insensata, un massacro incosciente per interessi incoscienti”), l’orrore per la violenza, la morte come una costante, il mito del coraggio, la sincerità (doveva mettere dentro il brutto e il cattivo oltre che il bello, altrimenti il lettore non avrebbe provato la sensazione della “vera vita”), la libertà come unico credo.
E per descrivere tutto ciò l’impiego di una scrittura volutamente ridotta all’osso, contraddistinta da “un’economia severa e austera di parole”.
La Pivano racconta dei suoi incontri con Hemingway, della disapprovazione della famiglia di lui, delle mogli e di quanto si sentisse un fallito per aver divorziato tre volte, degli amici scrittori e dei rapporti che nel tempo si sono guastati, della malattia che lo ha portato a togliersi la vita come un antico samurai.
Ho letto Addio alle armi, proseguirò con Per chi suona la campana e - con molta calma - leggerò i libri che più mi interessano fino ad arrivare a Il vecchio e il mare.
Dice di Francis Scott Fitzgerald di non averlo mai conosciuto: è morto troppo presto.
È stato Fitzgerald con Di qua dal Paradiso a dare al decennio dal ‘19 al ‘29 il nome di Età del Jazz. Un periodo nel quale ogni gesto poteva assumere un carattere di sfida (che le donne si tagliassero i capelli, accorciassero le gonne e infilassero calze color carne erano considerati simboli di ribellione; niente più trecce, niente più busti, finalmente autonomia e il diritto di voto).
Scott e Zelda, diventati l’emblema di New York, facevano quel che pareva a loro, quando e dove volevano. E Fitzgerald, nel tentativo di mantenere un certo tenore di vita, scriveva centinaia di storie, inserendo in ognuna una goccia di sé (“non sangue, non una lacrima, non il mio seme, ma me stesso più intimamente”). In ognuna inseriva anche la sua Zelda, e tutte le volte ne faceva un ritratto talmente ingrato che il risentimento della moglie è cresciuto negli anni fino ad esplodere.
È Zelda - la pazza - a essere additata come la principale causa della rovina di Scott. Ma è la stessa Zelda a contribuire più volte alla creatività del marito: oltre a ispirare molti dei suoi personaggi (Daisy cita le parole di Zelda: “Sono contenta che sia una bambina. E spero sia stupida. È il meglio che una ragazza possa essere, in questo mondo, una bella stupida”), è lei a suggerire a Scott modifiche e tagli. E i diari, le lettere e alcune parti dell’unico romanzo scritto da Zelda (Lasciami l’ultimo valzer) si trovano rimaneggiati all’interno delle opere del marito.
La Pivano spende molte parole per Zelda e la sua colpa di essere nata donna, per poi tornare a Fitzgerald. Si chiede perché Zelda col tempo sia stata rivalutata (è considerata un’icona femminista), mentre nessuna biografia prenda in esame la denuncia sociale operata da Scott. Le sue sono storie di declino, di personaggi che “da situazioni di integrità morale” vengono inesorabilmente condotti (dalla corruzione esercitata dal denaro, dal veleno della ricchezza, dalla tentazione della facilità economica) “alla disintegrazione e al disastro”. La personificazione della New York frivola era tutt’altro che leggera.
La parte che ho preferito è quella dedicata a Dorothy Parker, scrittrice/giornalista/poetessa a me prima ignota.
L’immagine della Parker “è legata al lusso e alla frivolezza, a sbronze più o meno festose e ad amori più o meno discutibili”, “a scene di fasto e di sperpero, di egoismo sociale e di leggerezze private”. Si parlava dei suoi boa di struzzo e del suo whisky, dei suoi mariti e dei suoi amanti, dei suoi aborti e dei suoi tentativi di suicidio, dei suoi debiti e delle malignità con cui stroncava amici e conoscenti.
La malignità - che serviva a smascherare i rappresentanti della presunzione, dell’ignoranza, dell’ipocrisia - era però solo una delle forme in cui esprimeva il proprio umorismo. E lei era la prima vittima dei suoi stessi commenti al vetriolo.
Fernanda Pivano ne delinea un primo ritratto per poi scavare più a fondo. Racconta aneddoti, parla dei lavori che hanno reso la Parker popolare, riporta testi di sue poesie e ne analizza le contraddizioni. Riscontra la fragilità di una donna che era allegra e spensierata solo all’apparenza, quando è fin troppo facile rintracciare in lei una creatura insicura, disperata e solitaria, nell’ambivalenza che fin dal principio ha costituito il suo personaggio.
Della parte finale, dedicata a William Faulkner, consiglio la lettura solo se conoscete già la trama di alcune delle sue opere più famose.
Per illustrarne il simbolismo, per far capire come la critica abbia individuato nei romanzi di Faulkner una serie di allegorie, la Pivano ne analizza la trama per filo e per segno, svelando persino il finale.
Spiega il senso del titolo, quanto fosse ironico - se non blasfemo - usare Santuario in riferimento a un bordello o a una fabbrica d’alcol. E così anche in Requiem per una monaca, dove la monaca è una ex prostituita tossicomane. O forse Santuario di riferisce ad altro, alla donna. O forse all’avvocato.
A proposito, Faulkner (il quale disse - dopo aver vinto il Nobel - di aver scritto Santuario con la sola idea di “fare quattrini") dichiarò: “Uno scrittore è troppo occupato a creare personaggi in carne e ossa che stiano in piedi per aver tempo di rendersi conto di tutto il simbolismo che può aver messo in quello che ha scritto o che la gente vi può trovare”.
La parte su Faulkner è la più complessa: la vita, i temi affrontati, il sensazionalismo, la tendenza a denigrare il suo stesso lavoro, lo stile di scrittura (opposto a quello di Hemingway) lo rendono un autore per me più difficile da afferrare.
Vorrei comunque leggere Mentre morivo e proseguire con Santuario.
Ho lasciato Edgar Lee Masters per ultimo.
La sua Antologia di Spoon River ha causato uno scandalo inimmaginabile nell'America del 1915: Masters immaginò che i defunti di una cittadina recitassero da sé il proprio epitaffio, rivelando la realtà quotidiana della “nuova” civiltà americana. “Un’umanità tragica, sofferta e tuttavia tesa alla speranza e alla fiducia”.
Fernanda Pivano si è innamorata dell’Antologia grazie all’immagine evocata dal defunto Francis Turner, il quale mentre baciava l’adorata Mary “con l’anima sulle labbra, l’anima d’improvviso gli volò via”.
È con l’anima sulle labbra che la Pivano ha scritto le introduzioni che compongono questa raccolta, ed è grazie all'anima sulle labbra che riesce a trasmettere il suo amore per questi autori che, ormai, sono diventati dei classici.
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