Notre Dame de Paris

 

Notre Dame de Paris, capolavoro di un allora giovane Victor Hugo, non è una lettura facile, ed è bene tenerlo presente, perché bisogna essere consapevoli del guaio in cui, forse, vi caccerete un giorno e, forse, vi ritroverete a pensare a questo post. Se poi l’avete già letto, scrivetemi se la vostra esperienza rispecchia un po’ la mia. 

 

Le prime cinquanta pagine sono state una montagna da scalare, un ostacolo quasi insormontabile, e ciò che mi ha spinto a proseguire è stata solamente la certezza che, prima o poi, Quasimodo, Esmeralda, Febo e Frollo avrebbero fatto la loro apparizione.

Peccato averli a spizzichi e bocconi, qua e là, in mezzo a pagine e pagine di digressioni dell’autore: gli elenchi infiniti di dignitari e personaggi dimenticabili e dimenticati, le sue opinioni politiche, la sua teoria sull’arte gotica che supera quella rinascimentale o sulla stampa destinata a soppiantare l’architettura... Hugo, insomma, si intromette di continuo, è prolisso, esagerato, e, per quanto dotato di un bell’umorismo, a tratti avrei voluto potergli dire: “E vai al sodo!”.

Ma quando ci arriva - al sodo, dico - ci arriva in maniera formidabile.

E Frollo diventa uno dei personaggi più complessi di cui si possa leggere: uomo di scienza, medico, alchimista, uomo di chiesa, innamorato di una zingara. In grado di provare amore fraterno e sentimenti caritatevoli nei confronti di uno storpio che, se non fosse per lui, sarebbe stato gettato nel fuoco, per poi precipitare nella lussuria, nella gelosia più cieca e nella follia. Un conflitto dietro l’altro e mille sfumature. 

Abbi pietà di me! Tu ti credi sventurata: ah! non sai che cosa sia la sventura. Amare una donna: esser prete! Amarla con tutto il furore dell’anima; sentire che si darebbe per il suo più piccolo sorriso, il proprio sangue, le viscere, il buon nome, la salute, l’immortalità, l’eternità, questa vita e l’altra: piangere perché non si è re, geni, imperatori, arcangeli, Dio, per poterle mettere un più grande schiavo ai piedi; sognarla tutta la notte, pensarla tutto il giorno, vederla innamorata di una livrea da soldato! e non avere da offrirle se non una sudicia sottana da prete, non metterle paura e disgusto!


Le descrizioni di Esmeralda sono lettere d’amore, preghiere a una donna angelo o a una divinità pagana, ma si può cogliere anche l’immaturità di una quindicenne: è ancora superficiale e davvero troppo ingenua. È stata una tortura leggere del suo processo, della prigionia, dei ricatti a cui non ha mai ceduto. E, ogni volta che le capita qualcosa, si spera che ne venga fuori e riesca a salvarsi. 

 Attorno a lei, tutti gli squardi erano fissi, tutte le bocche aperte; e davvero, a vederla danzare così al suono di un cembalo che teneva alto sul capo con le sue braccia bianche rotonde, vestita di un bustino d’oro senza pieghe, di una veste variopinta che ondeggiava, le spalle nude, le gambe sottili che si mostravano di tanto in tanto, i capelli neri, gli occhi fiammeggianti, sembrava una creatura non terrena.


Di Quasimodo si percepiscono il dolore e la pena che deve aver provato nell’essere trattato come il mostro che non è, ma che è praticamente diventato. Ormai è ridotto a un press’a’poco, è parte integrante della Cattedrale che lo ospita.

 D’altronde bisogna rendergli giustizia: la cattiveria non era innata in lui. 

Dai suoi primi passi in mezzo agli uomini si era sentito e poi visto disprezzato, scartato, respinto. La parola umana per lui era stata sempre o uno scherno o una maledizione. Crescendo, non aveva trovato altro che odio intorno a sé, e aveva acquisito, aveva preso la cattiveria di tutti, aveva raccolto l’arma con cui gli altri lo avevano ferito.


Mentre a Febo ("gli piaceva la taverna, con tutto quel che segue: non si sentiva bene se non in mezzo al parlar grasso, alle galanterie soldatesche, alle bellezze facili e alle conquiste pronte!") nessuna trasposizione ha mai reso giustizia: è lui, rozzo cavaliere dall’armatura dorata, il vero mostro, ed è l’unico ad avere un immeritato lieto epilogo... sebbene Hugo ci tenga a far sapere che il matrimonio sia una “fine tragica”! (L’ho detto che è simpatico!)

 

Si aggiungono altri bei personaggi: Gringoire, filosofo chiacchierone pazzo di Djali la capretta; Jehan, studente squattrinato e fratello di Frollo; la reclusa del Buco dei Topi, che ho adorato perché ricorda la monaca di Monza. E poi c’è Notre Dame con le sue statue, i suoi gargoyles e le sue campane, e c’è Parigi coi suoi abitanti e i mascalzoni della Corte dei Miracoli, e ne vengono fatti dei resoconti stupendi. Da prendere l’aereo, salire su per le scale della Cattedrale col romanzo in mano e verificare se ciò di cui si parla ancora esista. 

Qualche stella si attardava spegnendosi qua e là, una brillava ancora a levante in mezzo al chiarore del cielo. Il sole doveva stare per sorgere. Parigi incominciava a muoversi. La luce purissima e bianchissima dell’oriente metteva in risalto tutti i piani delle sue mille case da quel lato; e l’ombra gigantesca dei campanili andava di tetto in tetto da un capo all’altro della grande città. Certi quartieri erano già tutti i tesi e rumorosi. Qua un rintocco di campana, là un colpo di martello, laggiù il cigolio complicato di un carro. Già si alzava fumo dai tetti, come dalle fenditure di un’immensa solfara. Il fiume che corruga le sue acque contro gli archi di tanti ponti, contro le punte di tante isole, era tutto arabescato d’argento. Intorno alla città, oltre i bastioni, la vista si perdeva in un grande cerchio di vapori fioccosi attraverso i quali si scopriva confusa la linea infinita della pianura e le graziose curve delle colline. Ogni sorta di fluttuanti rumori si disperdeva su quella città semidesta. 

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